IL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI
    Letti gli atti del procedimento penale n.  3443/92  r.g.  p.m.  n.
 15606/92 r.g. g.i.p. nei confronti di:
    Stefani Giulio, nato a Montebelluna il 28 ottobre 1924 e residente
 in  Torino,  via  Isolabella,  n. 5; in ordine ai reati p. e p. dagli
 artt. 612 e 660 c.p., commessi in Torino, fino al 29 gennaio 1992, in
 danno di Donzellini Patrizia;
                             O S S E R V A
    Nel presente procedimento penale, iscritto  a  carico  di  Stefani
 Giulio  in  ordine  ai  reati p. e p. dagli artt. 612 e 660 c.p., per
 fatti commessi in  Torino  fino  al  29  gennaio  1992,  il  pubblico
 ministero  chiedeva  a  questo giudice l'autorizzazione a disporre le
 intercettazioni telefoniche  sull'utenza  in  uso  allo  Stefani  dal
 momento  che  il  predetto,  come  si  evince da quanto denunciato da
 Donzellini Patrizia, persona  offesa,  era  stato  indicato  come  il
 probabile autore dei reati di cui si tratta ed era stato riconosciuto
 -   a   dire   della  denunciante  -  nel  corso  di  una  precedente
 comunicazione telefonica ci carattere minaccioso.
    L'autorizzazione veniva concessa,  ricorrendone  i  presupposti  a
 norma  dell'art. 266, primo comma, lett. f), del c.p.p. e, al termine
 delle conseguenti operazioni, che  erano  state  per  ben  due  volte
 prorogate,  non essendo stato acquisito alcun elemento a carico dello
 Stefani,  il  pubblico   ministero   chiedeva   l'archiviazione   del
 procedimento  e,  con  la  medesima  richiesta, l'autorizzazione alla
 cancellazione dei nastri utilizzati per le intercettazioni.
    Questo giudice, con il provvedimento in atti del 30  maggio  1992,
 accoglieva  la  richiesta  di  archiviazione, ma respingeva quella di
 cancellazione dei nastri.
    Il pubblico ministero impugnava il decreto nella parte sfavorevole
 alle sue richieste e chiedeva alla Corte di cassazione l'annullamento
 del  provvedimento  che,  a   giudizio   del   ricorrente,   appariva
 sostanzialmente abnorme.
    Il   ricorso   veniva  dichiarato  inammissibile  dalla  Corte  di
 cassazione che, con la sentenza n. 885 del 18 marzo 1993  -  sez.  V,
 ribadiva  l'inoppugnabilita'  dei  provvedimenti  assunti de plano e,
 contemporaneamente, escludeva che il provvedimento impugnato  potesse
 essere qualificato atto abnomre, come invocato dal pubblico ministero
 ricorrente.
    Alla luce di tale decisione, il pubblico ministero chiedeva allora
 a  questo  Ufficio  la  fissazione  di  camera  di consiglio, a norma
 dell'art.  127  c.p.p.,  ma  la  richiesta   veniva   rigettata   con
 provvedimento del 9 giugno 1993.
    Il  pubblico ministero proponeva nuovamente ricorso per cassazione
 sostenendo  l'abnormita'   e   chiedendo   l'annullamento   di   tale
 provvedimento.
    La  Corte  di  cassazione,  con  la sentenza n. 378 del 26 gennaio
 1994, sez.  V,  questa  volta  accoglieva  il  ricorso  del  pubblico
 ministero  e,  affermando l'abnormita' dei provvedimenti adottati nel
 mancato rispetto della procedura per essi prevista, soprattutto se da
 cio' derivi l'impossibilita'  di  un  controllo  da  parte  di  altri
 Organi,  conformemente  alle  conclusioni  del  Procuratore generale,
 anullava il provvedimento impugnato, imponendo a  questo  giudice  di
 procedere  nelle forme di cui all'art. 127 del c.p.p. sulla richiesta
 del pubblico ministero.
    Ebbene, a parte il rilievo in ordine alla  sostanziale  diversita'
 delle  due  decisioni  della  Corte  di  cassazione che, con la prima
 sentenza  ha  sancito  la  conformita'  al  sistema  processuale  del
 provvedimento  di  questo giudice adottato "de plano", mentre, con la
 seconda decisione, ha ritenuto abnorme  il  successivo  provvedimento
 sulla  medesima  richiesta del pubblico ministero, perche' non emesso
 con la procedura camerale prevista dall'art. 127 del c.p.p., cio' che
 rileva in questa sede e' l'effetto che comporta la  seconda  sentenza
 della   Corte,   imponendo,   nel   caso  concreto,  la  celebrazione
 dell'udienza camerale.
    Dalla motivazione della sentenza, come e' ovvio, appare chiara  la
 ragione della decisione, ancorche' essa sia costituita dall'integrale
 richiamo delle conclusioni del Procuratore generale.
    L'abnormita'  del provvedimento annullato, invero, deriverebbe dal
 "rifiuto" da parte di questo giudice di seguire la procedura per esso
 prevista e, cioe', di aver pronunciato  de  plano  il  provvedimento,
 omettendo di osservare il dettato dell'art. 127 del c.p.p. e cosi' di
 fatto  impedendo  anche  al  pubblico ministero di attivare qualsiasi
 forma di controllo, per l'inoppugnabilita' dei  provvedimenti  emessi
 de plano.
    La questione, ad avviso di questo giudice, consiste, se mai, nello
 stabilire se sia astrattamente compatibile con i principi generali la
 possibilita'  per  il  giudice di adottare alcuni provvedimenti senza
 preventivamente procedere all'integrazione del contraddittorio tra le
 parti e in mancanza di ogni possibilita' di impugnazione.
    Se,    pero',    provvedimenti   di   tale   natura   appartengono
 legittimamente al nostro sistema processuale, il problema, allora, e'
 di  verificare,  in  concreto,  se  il  giudice  abbia  in  tal  modo
 deliberato nei casi previsti e consentiti ovvero al di fuori di essi.
    Nel  caso  di  specie,  la  cancellazione  dei  nastri  era  stata
 inizialmente   richiesta   dal    pubblico    ministero    unitamente
 all'archiviazione  del  procedimento  e,  pertanto,  questo  giudice,
 conformemente  a  quanto   richiesto,   ha   pronunciato   de   plano
 provvedimento  di  archiviazione,  a  norma dell'art. 554 del c.p.p.,
 specificando  contestualmente  anche  i   motivi   che   comportavano
 l'inaccoglibilita'  della  seconda richiesta. Il ricorso del pubblico
 ministero contro  tale  provvedimento,  infatti,  e'  stato  ritenuto
 inammissibile dalla Corte di casssazione.
    Per  quanto,  poi,  riguarda  la  successiva richiesta dell'Organo
 dell'accusa,  quella  con  cui  veniva  domandata  l'attivazione  del
 procedimento  camerale,  che  alla luce della seconda decisione della
 Corte avrebbe dovuto essere accolta, occorre brevemente chiarire  due
 punti della questione.
    Il  primo  attiene  solo  a  ragioni  di  chiarezza e completezza,
 giacche' esso non appare decisivo in  questa  sede.  Occorre,  pero',
 ribadire come la procedura camerale prevista dall'art. 127 del c.p.p.
 non  per questo renda impugnabili nel merito i provvedimenti adottati
 a seguito di tale procedura.  Il  ricorso  per  cassazione  per  essa
 previsto,  invero, consente certamente di eccepire le eventuali cause
 di nullita' espressamente stabilite a proposito delle regole  fissate
 per  la corretta integrazione del contraddittorio tra le parti (artt.
 127.5 e 667.1/lett. c), c.p.p.) ovvero di rilevare la mancanza  o  la
 manifesta  illogicita'  della  motivazione del provvedimento adottato
 (art. 606.1/lett. e), c.p.p.), ma nulla di piu'.
    Ed allora, non si comprende davvero come dalla mancata adozione di
 una  procedura  che   consente   questo   limitatissimo   ambito   di
 impugnazione  si  possono  ricavare gli unici argomenti per affermare
 l'abnormita' del provvedimento che il pubblico ministero - si badi  -
 impugna   unicamente   per   ragioni  di  merito,  mostrando  di  non
 condividere la decisione di questo giudice. E, per di  piu',  non  si
 comprende  come  mai  tale  abnormita'  non  sia stata immediatamente
 rilevata, con la prima decisione della Corte.
    Il secondo punto, poi, appare particolarmente rilevante in  questa
 sede,  dal  momento  che  la  Corte  di  cassazione  ha  stabilito la
 necessita' della celebrazione dell'udienza camerale nella materia  di
 cui si tratta.
    L'art.   269  del  codice  di  procedura  penale  appare  l'esatta
 esplicazione del principio affermato nella direttiva n. 41  lett.  e)
 della legge delega.
    Nel  primo  comma  dell'art.  269,  invero,  viene  riaffermato il
 principio dell'obbligatorieta'  della  conservazione  dei  verbali  e
 delle  registrazioni  presso  l'ufficio del pubblico ministero che ha
 disposto l'intercettazione e, nel secondo comma, vengono  determinati
 i  casi  nei  quali,  eccezionalmente,  a  garanzia  del diritto alla
 riservatezza, tale documentazione deve essere distrutta.
    Con  esso,  in  altri  termini, si stabilisce il criterio generale
 dell'obbligatorieta' della  conservazione  delle  registrazioni  fino
 alla  sentenza  non  piu'  soggetta ad impugnazione, fatte salve solo
 quelle intercettazioni  assunte  fuori  dai  casi  consentiti  ovvero
 quelle che comunque non potrebbero trovare alcuna utilizzazione.
    Nell'ambito  di  questo  generale  criterio,  e'  stata introdotta
 l'eccezione relativa alle intercettazioni che  potrebbero  ledere  il
 diritto  alla  riservatezza  dei  rispettivi soggetti interessati. In
 tale ipotesi, e solo per essa, il legislatore  ha  previsto  che  gli
 interessati   possano   chiedere   al   giudice  che  ha  autorizzato
 l'intercettazione la distruzione anticipata delle  registrazioni,  se
 esse  non  sono  necessarie  per  il procedimento. Sulle richieste il
 giudice decide in camera di  consiglio  a  norma  dell'art.  127  del
 c.p.p.
    Nel  concetto di "interessati", sembra potersi ricomprendere tutti
 coloro le cui voci sono state registrate  ovvero  coloro  di  cui  si
 parla  nel  corso delle registrazioni, e cio' indipendentemente dalle
 utenze sottoposte ad intercettazione. In tale ottica,  evidentemente,
 e'  difficile, pero', ricomprendere anche il pubblico ministero, che,
 invece, e' l'organo che dispone l'intercettazione.
    In secondo luogo, la distruzione delle intercettazioni puo' essere
 richiesta solo per ragioni di  tutela  della  riservatezza,  per  cui
 ancor  piu'  si  ritiene  di  dover  escludere  che  tra  i  soggetti
 interessati   possa   rientrare   anche   il    pubblico    ministero
 nell'interesse  del  suo  ufficio.  Il  rappresentante della pubblica
 accusa, se mai, potrebbe avanzare tale richiesta in nome e per  conto
 di   altre   persone,  ma  anche  tale  interpretazione  appare  poco
 percorribile, atteso il termine usato dal legislatore  che  ha  fatto
 espresso   riferimento   agli   "interessati",  con  cio'  intendendo
 riferirsi - evidentemente - a chiunque abbia o possa avere un proprio
 e diretto interesse alla richiesta.
    Ma,  al  di  la'  dell'astratta  individuazione  delle   categorie
 legittimate  ad avanzare una simile richiesta al giudice, va rilevato
 come, in  concreto,  il  pubblico  ministero  non  abbia  minimamente
 presentato  la  richiesta  di cancellazione dei nastri a garanzia del
 diritto alla riservatezza di qualcuno, come si rileva dalla  mancanza
 di  ogni  riferimento a tale diritto nella sua prima richiesta e come
 testualmente si evince dalle argomentazioni addotte  con  il  ricorso
 per cassazione proposto in data 12 giugno 1992.
    La vera ed unica ragione per cui il pubblico ministero ha mostrato
 di  avere interesse alla distruzione delle registrazioni e' quella di
 liberare  gli  armadi  che,  diversamente,  rimarrebbero   pieni   di
 registrazioni probabilmente inutili.
    Tale  esigenza,  d'altra  parte,  appare certamente comprensibile,
 soprattutto se si considera che molti procedimenti vengono  di  fatto
 definiti  con  decreto  di  archiviazione  e  per essi non potra' mai
 essere pronunciata una sentenza non piu' soggetta ad impugnazione.
    Cio' nonostante, l'esigenza di liberare gli  armadi  degli  uffici
 giudiziari  il  piu' celermente possibile appare in contrasto proprio
 con quanto testualmente stabilito dall'art. 269 c.p.p. e  soprattutto
 con  il  principio  sancito  nella  legge  delega  di  "conservazione
 obbligatoria   presso   la   stessa   autorita'   che   ha   disposto
 l'intercettazione  della documentazione integrale delle conversazioni
 e  delle  altre  forme  di  comunicazioni   intercettate".   Occorre,
 pertanto, che la soluzione di tale problema sia demandata ad una piu'
 approfondita  valutazione  delle  contrapposte  esigenze da parte del
 legislatore,  ma  essa  non  puo'  essere  raggiunta  attraverso  una
 semplicistica  ed  estensiva  interpretazione  delle  norme contenute
 nell'art. 269 c.p.p.
    In questa situazione, anche  la  seconda  richiesta  avanzata  dal
 pubblico  ministero in data 2 giugno 1993 di "fissazione dell'udienza
 camerale ex art. 127 c.p.p. al fine di autorizzare  la  cancellazione
 dei  nastri registrati relativi alle intercettazioni telefoniche" non
 poteva trovare accoglimento da parte di questo giudice.
    Essa costituiva semplicemente  la  reiterazione  della  precedente
 richiesta,  senza  che nessun altro elemento fosse sopravvenuto e, in
 secondo luogo, per essa rivivevano  tutte  le  considerazioni  appena
 svolte  in  tema  di  distruzione  di  nastri e documenti relativi ad
 intercettazioni  esclusivamente   a   garanzia   del   diritto   alla
 riservatezza.
    Questo  giudice,  pertanto, in nessun caso avrebbe dovuto e potuto
 fissare la camera di consiglio a norma dell'art. 127 c.p.p.
    A questo punto della  descritta  vicenda  processuale,  pero',  si
 colloca  la  menzionata  decisione  della suprema Corte che impone di
 tenere l'udienza a norma dell'art. 127 c.p.p.
    Da qui la rilevanza della questione, qualora - come si  ritiene  -
 l'interpretazione  della  disposizione data dalla Corte di cassazione
 faccia   sorgere   dubbi   di   legittimita'    costituzionale    non
 manifestamente infondati.
    La  decisione  in  parola,  infatti, prescinde totalmente dai casi
 previsti a tutela del diritto alla riservatezza, per i quali soltanto
 andrebbe  celebrata  l'udienza  camerale  e,   percio',   con   essa,
 evidentemente,  si  stabilisce  il  criterio  generale  secondo  cui,
 dinanzi  ad  una  richiesta  del  pubblico  ministero  di  fissazione
 dell'udienza  camerale  a  norma  dell'art.  127  c.p.p.  in  tema di
 autorizzazione  alla  distruzione  della   documentazione   acquisita
 attraverso  le  intercettazioni,  il  giudice  che  ha autorizzato le
 intercettazioni medesime e' tenuto alla fissazione dell'udienza,  con
 conseguente celebrazione di essa in camera di consiglio.
    Questa   interpretazione,   a   giudizio  di  chi  scrive,  sembra
 contrastare con gli artt. 76 e 3 della Costituzione.
    Si e' gia' detto come la specifica direttiva n. 41, in materia  di
 disciplina delle intercettazioni, non preveda la fissazione di alcuna
 udienza  a  tal  rigurado,  ma  al  contrario stabilisca il principio
 dell'obbligatorieta'   della   conservazione   della   documentazione
 relativa alle conversazioni. E si e' pure gia' osservato come solo il
 legislatore  delegato,  nel  dare  attuazione  a  quella  parte della
 direttiva che  impone  la  "determinazione  dei  casi  nei  quali,  a
 garanzia  del  diritto  alla  riservatezza,  tale documentazione deve
 essere distrutta", abbia introdotto la procedura  prevista  dall'art.
 127 c.p.p. in via eccezionale, appunto solo ai fini dell'adozione dei
 provvedimenti a tutela del diritto alla riservatezza.
    Estendere  l'applicazione  di  tale  procedura, pretendendo che si
 proceda con le forme dell'art. 127 c.p.p. a seguito di ogni richiesta
 che riguardi l'eventuale distruzione  della  documentazione  relativa
 alle  intercettazioni,  indipendentemente  dalle ragioni per cui essa
 sia  stata  proposta,  appare  operazione  interpretativa  che   gia'
 consente di dubitare della conformita' di una siffatta estensione con
 i  criteri fissati dal legislatore delegante nella direttiva n. 41 e,
 di  conseguenza,  della  legittimita'  della  disposizione  contenuta
 nell'art. 269 c.p.p. conformemente a quanto stabilito dalla Corte  di
 cassazione, con l'art. 76 della Costituzione, per eccesso di delega.
    I  dubbi di legittimita' costituzionale per contrasto tra la norma
 del codice in parola ed  il  medesimo  principio  constituzionalmente
 garantito   aumentano,  poi,  se  si  considera  che  il  legislatore
 delegante e' stato particolarmente attento e rigido  nel  fissare  il
 principio   della  "massima  semplificazione  nello  svolgimento  del
 processo con eliminazione di ogni atto o  attivita'  non  essenziale"
 (direttiva  n.  1),  principio  che  per il procedimento pretorile e'
 stato  ulteriormente  ribadito  (direttiva  n.  103),  con  specifica
 esclusione  dell'udienza  preliminare.  L'introduzione  di un'udienza
 camerale, specialmente  nel  procedimento  pretorile,  attraverso  il
 sistema  dell'interpretazione  estensiva  di  una  disposizione,  tra
 l'altro, che - come si  e'  detto  -  e'  norma  eccezionale,  appare
 operazione  vietata  e rafforza i dubbi in ordine alla prospettazione
 di un eccesso di delega.
    Vi  e',  infine,  ancora  da  considerare  che  la  necessita'  di
 richieste  analoghe  a  quella  di  cui  si tratta si puo' presentare
 principalmente nella fase della chiusura delle  indagini  preliminari
 attraverso  la  richiesta  di  archiviazione,  giacche'  - come si e'
 osservato - proprio in questi casi  potrebbe  sorgere  l'esigenza  di
 liberare  gli  archivi  da  documentazione  e nastri apparentemente e
 probabilmente inutili.
    Senonche',  l'istituto  dell'archiviazione  nel   nostro   sistema
 processuale   risulta  disciplinato  dal  legislatore  delegato  alla
 stregua dei criteri fissati dal legislatore delegante nelle direttive
 n. 50 e n. 51. In questa materia sono stati  espressamente  stabiliti
 dal  legislatore  i  casi  nei quali debba essere fissata e celebrata
 l'udienza in camera di consiglio.
    Ebbene,  qualora  la  richiesta  di  archiviazione  del   pubblico
 ministero,  in mancanza di opposizione del denunciante, venga accolta
 dal giudice per le indagini preliminari, l'udienza di cui  si  tratta
 non  e'  prevista  e  non  viene  tenuta  neppure nei procedimenti di
 competenza del tribunale.
    Il giudice, in questi casi, emette il provvedimento de plano.
    Se,  peraltro,  si  stabilisse  il  principio  secondo  il   quale
 l'udienza  in parola deve essere obbligatoriamente tenuta solo che il
 pubblico ministero richieda la cancellazione  dei  nastri  utilizzati
 per    le   eventuali   intercettazioni,   poiche'   tale   richiesta
 interverrebbe nella  medesima  fase  della  chiusura  delle  indagini
 preliminari,  si correrebbe il rischio, da una parte, di assegnare al
 pubblico ministero una facolta' discrezionale di far  tenere  o  meno
 l'udienza  di  cui  si  tratta  a  seconda  che egli faccia oppure no
 richiesta  di  distruzione  delle  registrazioni  e,  dall'altra,  di
 assoggettare a procedure diverse situazioni processualmente analoghe,
 distinte  solo  a seconda che siano state o meno svolte operazioni di
 intercettazione  e  che  della  relativa  documentazione  sia   stata
 richiesta  la  distruzione  da  parte  del  pubblico  ministero,  con
 conseguente ingiustificata disparita' di trattamento.
    Non si comprende, ad esempio, perche' la persona  sottoposta  alle
 indagini,  che  di  regola  ignora  completamente  l'esistenza  di un
 procedimento a suo carico  e  che,  in  caso  di  accoglimento  della
 richiesta  di  archiviazione  del pubblico ministero, non deve essere
 messa in condizioni di venirne a conoscenza, debba essere informata -
 attraverso  la fissazione dell'udienza - delle indagini in precedenza
 svolte, a differenza di quanto  normalmente  avviene  negli  analoghi
 casi  in  cui,  o  non siano state disposte intercettazioni o, peggio
 ancora,  il  pubblico  ministero  non  abbia   fatto   richiesta   di
 distruzione delle registrazioni.
    La  prospettata  disparita',  invero non attiene strettamente alla
 disciplina dell'istituto dell'archiviazione,  giacche'  l'udienza  di
 cui   si   tratta   potrebbe   anche  essere  fissata  in  tempi  non
 perfettamente coincidenti con il provvedimento di archiviazione e, in
 ogni caso,  essa  non  sarebbe  influente  sulla  decisione  relativa
 all'archiviazione  medesima. Per questa ragione, non si ritiene che -
 anche  con  riferimento  all'istituto  dell'archviazione  -   possano
 prospettarsi  dubbi  in  ordine  ad  un  possibile eccesso di delega.
 Rimane, pero', il fatto che  la  fissazione  dell'udienza  in  parola
 comunque  comporterebbe  una sostanziale disparita' di trattamento in
 situazioni processuali analoghe,  per  le  ragioni  appena  indicate,
 consentendo solo ad alcuni soggetti, a differenza di altri, di essere
 informati  delle avvenute indagini a loro carico e tutto cio', per di
 piu', in conseguenza di  una  discrezionale  richiesta  del  pubblico
 ministero.
    Va,  da  ultimo,  a  tal  riguardo  rilevato  che l'effetto di una
 siffatta prospettata disparita'  andrebbe  a  ricadere  negativamente
 anche   in   capo  agli  stessi  soggetti  interesati  ai  fatti  del
 procedimento. Non pare assolutamente ragionevole, in  altri  termini,
 in casi come quello in esame, fissare un'udienza tra le parti, con la
 conseguenza  di  portare  necessariamente  a conoscenza della persona
 sottoposta ad indagini di essere stata sospettata dal denunciante  di
 aver commesso dei reati, per accertare i quali - tra l'altro - la sua
 linea telefonica e' rimasta sottoposta ad intercettazione per periodi
 anche considerevoli di tempo.
    Per  le  esposte  ragioni,  si ritiene di dover proporre al vaglio
 della   Corte   costituzionale   la   questione    di    legittimita'
 costituzionale  che  sembra potersi ravvisare nell'attuale situazione
 processuale.
    Non pare manifestamente infondato ritenere,  infatti,  che  l'art.
 269  c.p.p., cosi' come nel caso di specie risulta stabilito, in modo
 vincolante,  dall'interpretazione  della  Corte  di  cassazione,  sia
 illegittimo  per violazione dei principi contenuti negli artt. 3 e 76
 della Costituzione, per cui gli atti  devono  essere  trasmessi  alla
 Corte costituzionale per il giudizio di legittimita'.